Il motore di ricerca chiede la collaborazione degli imprenditori e offre in cambio una migliore visibilità con il monitoraggio di 14.000 “agenti segreti”
Si è soliti dire che, se paghi Google, lui si prende i tuoi soldi senza indagare troppo sul perché glieli dai. Tutto vero. Google è una macchina da soldi ed è per questo scopo che si è inventato il mestiere del “motore di ricerca”. Si tratta di una “professione” complessa, che richiede attenzione perché è soggetta al giudizio di un pubblico molto vasto. Google sente sul collo la rabbia di chi vorrebbe contrastarlo per prendere il suo posto, che è fortemente lucroso. Per questo motivo Google ha bisogno di difendersi, mettendo in atto strategie che tendono a valorizzare la propria credibilità e a condannare tutto ciò che mina la propria autorevolezza. Comprese tutte quelle aziende (in Italia ce ne sono molte) che, pur investendo su Google, non ne rispettano gli intendimenti. Anche inconsciamente. Vediamo come Google le controlla e quando le penalizza.
Partiamo da quali sono gli interessi che Google vuole difendere. Il principale è quello di evitare che dagli scaffali virtuali della sua immensa banca-dati possano essere estratte informazioni insoddisfacenti per chi effettua una ricerca.
Come si sta tutelando su questo punto?
Google ha recentemente modificato la propria strategia di mercato. Difatti, se una volta si metteva a disposizione delle aziende per indirizzare nuovi utenti verso i loro siti, oggi Google ha invertito la rotta, cercando prodotti e aziende da presentare all’utenza.
Per essere più chiari su questo cambio di operatività, esaminiamo come ragionava Google un paio d’anni fa e come invece ragiona oggi.
Una volta, le aziende chiedevano a Google di identificare un’utenza interessata ai loro prodotti e di portarla sul proprio sito, dietro il pagamento di un clic.
Oggi, al contrario, è Google che chiede all’azienda di identificare con precisione la tipologia della propria clientela e di indicargliela con la massima precisione, affinché lui gliela possa restituire in termini di traffico e di relativi clic a pagamento.
Non è più Google che fa l’analisi del cliente potenziale, ma l’azienda stessa.
Forse per alcuni diventa difficile comprendere la differenza tra queste due strategie, ma la realtà è che cambia profondamente il concetto di responsabilità.
Difatti, se prima Google si rendeva responsabile verso le aziende, che investivano sul motore di ricerca per la profilazione del cliente-tipo, oggi è l’azienda che si assume l’onere di una selezione “chirurgica” da condividere con Google.
Se non lo fa o commette errori in tal senso, Google la declassa pur continuando a prendersi i suoi soldi.
Il declassamento non avviene unicamente sul posizionamento che l’azienda ha conquistato all’interno delle pagine di ricerca, ma soprattutto nel suo grado di affidabilità.
Google non crede più in lei e, per questo, la ritiene addirittura pericolosa per i suoi scopi di autorevolezza nei confronti di chi naviga.
Per questo motivo, se un’azienda non si comporta così come Google richiede, lui non ha nessun interesse ad aumentarne la visibilità.
Per capire se un’azienda fa il proprio “dovere”, Google mette in atto due tipi di controlli.
Il primo è informatico, e si sviluppa mediante gli algoritmi che identificano tutta una serie di comportamenti, accolti nelle sue linee-guida (ne accenniamo tra poco).
Il secondo controllo avviene invece con la presenza di operatori umani, che ogni giorno sono al lavoro per visionare e giudicare le pagine web, di chi intende giovarsi di Google per implementare le proprie attività informative e commerciali.
Si tratta dei Google Quality Raters, una schiera di oltre quattordicimila 007 predisposti in tutto il mondo, anche in Italia, dotati di sistemi e di procedure quasi infallibili, atte ad una revisione costante di quei contenuti web che possono minare l’attendibilità del motore di ricerca.
Il lavoro degli algoritmi e quello dei Quality Raters è così meticoloso da rendere impossibile a chiunque il tentativo di raggirare Google. Anche quando si tratta di azioni involontarie, ma comunque poco gradite.
Tra poco entreremo più nel dettaglio.
Il pericolo è gravissimo, perché il rischio non è soltanto quello di essere declassati, ma anche quello di essere messi al bando. E chi viene bandito da Google ha finito di essere presente su Internet.
Come abbiamo detto, Google vuole essere utile a chi lo consulta. Vale a dire che, quando un utente fa una ricerca, Google vuole essere certo che i risultati che gli propone siano per lui soddisfacenti.
Anche in termini di fruibilità delle informazioni e di facilità di navigazione, soprattutto quando si utilizzano gli smartphone.
I suoi algoritmi gli permettono di decidere quali risultati offrire all’utenza fra i miliardi di pagine presenti su Internet. In questa sua selezione, Google privilegia le aziende paganti anche se non è sufficiente pagare per essere privilegiati.
Difatti, Google ha elaborato alcune linee-guida che è indispensabile seguire e che includono aspetti legali, commerciali e di comunicazione.
Certamente, ognuna di queste linee-guida può essere frazionata in ulteriori sotto-sezioni. Ma diciamo che la prima indagine di Google riguarda queste tre macro-aree.
Il rispetto delle regole è la condizione primaria perché una pagina web, quindi anche una scheda-prodotto, possa essere qualificata.
Il secondo criterio di valutazione di Google è invece questo: i contenuti che un sito propone devono attrarre pubblico e non respingerlo.
Per dirla tutta, con parole più chiare, se un sito è utile all’azienda che lo promuove, ma non lo è per chi naviga, Google lo ritiene del tutto inutile. E non lo considera. Come se non ci fosse.
Per Google diventa molto facile comprendere se un sito sia utile o meno. Lo capisce principalmente dal grado di interazione da parte dell’utenza.
Google è capace di interpretare tutte le azioni che un utente mette in atto nel momento in cui gli appare una pubblicità, un prodotto, una comunicazione di qualsiasi tipo.
Se l’utente si trova davanti a contenuti che non soddisfino i motivi per cui è atterrato su una pagina web, su una scheda-prodotto o su un annuncio di marketing, la sua insoddisfazione è facilmente individuabile per la scarsa attenzione che vi dedica:
Atteggiamenti di questo genere da parte di più utenti sono più che convincenti per ritenere che non vi sia congruità tra quanto viene proposto e quanto viene richiesto.
Google se ne accorge prima di ogni altro e, per questo, ritiene inutile concedere visibilità. Giustamente Google pensa ai propri interessi e, in questi casi, l’interesse di Google è quello di fornire ai suoi utenti (coloro che effettuano una ricerca) soltanto risposte utili.
Il titoletto che introduce questo paragrafo sembra un gioco di parole, ma non lo è affatto.
Da tutto quello che abbiamo fin qui scritto, si comprende che sono molteplici gli stadi di selezione da superare, per non essere penalizzati da Google.
Tuttavia vale la pena di sottolineare che non è affatto difficile superare la selezione delle linee guida, relative alle normative in vigore. Basta conoscere e rispettare la Legge.
E non è neppure difficile seguire le linee-guida relative agli aspetti commerciali: prezzi chiari, affidabilità dei prodotti, certezza sulle consegne, informazioni chiare sul venditore, politica dei resi, facilità di consultazione e via dicendo.
Più difficile, invece, è dimostrare a Google un’attinenza alle linee-guida sull’informazione.
Della congruità dei contenuti abbiamo già parlato ed abbiamo anche sottolineato che un contenuto è congruo quando è cliente-centrico. Cioè quando si adatta perfettamente al suo fruitore.
Ma l’interazione tra fruitore e contenuti non avviene casualmente o per magia. E qui ritorniamo a bomba.
Ricordiamoci sempre che Google si attende di ricevere dalle aziende i profili precisi di coloro che si interfacciano utilmente con quanto viene pubblicato.
E nessuno si può illudere di ipotizzare “a braccio” quali siano questi profili, perché Internet è invece scientifico nel delinearli.
Lo fa mettendo a disposizione una infinità di dati che vanno analizzati e strutturati perché Google, ricevendoli dalle aziende, li possa poi utilizzare a loro favore. Come in una solida operazione di partnership.
Purtroppo è molto raro che questo avvenga. Un po’ per mancanza di conoscenza delle logiche che regolano il mondo di Internet, comprese quelle che riguardano i rapporti con Google, e un po’ perché la fretta è cattiva consigliera.
Le aziende non dedicano l’attenzione necessaria a questa indispensabile fase di ricerca.
Ne consegue la produzione di contenuti giudicati di bassa qualità, invisi al motore di ricerca e di scarso interesse persino per chi naviga.
Si aggiunga che, altrettanto spesso, avviene che sulla base di esposizioni così scadenti si predispongono operazioni di marketing piuttosto costose, anche se prive di effetti.
Così, all’inconsistenza si somma il danno. Uscirne fuori diventa molto difficile, perché nel frattempo gli utenti hanno dedicato la loro attenzione ad altre aziende, che inevitabilmente Google sta già premiando.
Faccio subito una precisazione: non sto parlando di Google Maps. Parlo invece della mappatura di Google, cioè di quel ecosistema che da qualche tempo contraddistingue le risposte del motore di ricerca.
Come ti sei certamente accorto, le SERP di Google (Search Engine Research Pages) non sono più le stesse di un tempo.
Quando fai una ricerca, ti vengono proposte alcune sponsorizzate, altri link, ma anche diversi box con le news, domande correlate, definizioni, canali video, shopping e molto altro.
Sul telefonino appare anche l’icona di Discover, un servizio che effettua ricerche su base fotografica.
Man mano che si perfeziona, Google aggiunge sempre nuovi canali per restituire risposte complete a chi lo interpella. Questa è una mappatura universale in cui le aziende possono e devono essere presenti.
Va da sé che, per ottenere questo risultato, devono produrre contenuti idonei per ciascuno di questi territori d’informazione.
Per fare solo due esempi, se vuoi essere presente nel canale delle news devi produrre notizie a raffica, utili all’utenza. Su questo Magazine evoluzionecommerce pubblica una news al giorno senza sosta e un editoriale ogni settimana.
Così, se vuoi essere presente su Youtube (oggi divenuto un vero e proprio motore di ricerca) devi fornire a Google una serie di video inerenti i tuoi prodotti o la tua azienda. Video anche in questo caso utili ai terzi profilati.
Gli strumenti sempre più avanzati tecnologicamente, con cui gli utenti effettuano le proprie ricerche, fanno sì che tutti questi canali di Google stiano diventando sempre più indispensabili per ottenere visibilità.
Google stesso si accorge se un’azienda li prende in considerazione e, per questo, fa di tutto per avvantaggiarla.
Viceversa, Google non si ritiene affatto obbligato a favorire la visibilità di chi non segue i suoi desiderata. Google pretende di avere accanto una corte di imprese, insieme a cui lavorare con la massima competenza e perseguendo la medesima finalità.
Quella di rendersi entrambi autorevoli per chi naviga e, nel caso degli ecommerce, di rendersi auto referenzianti per chi compra.
Vale la pena essergli amico che non essere additato con sospetto.
Questo post è un’esclusiva di evoluzionecommerce, il team che affianca gli imprenditori nelle vendite online. Chiedi per maggiori informazioni.
Questa la domanda a cui molte aziende devono dare risposta.
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