Nonostante le imprese investano per pubblicizzare i loro prodotti, il marketplace tende a valorizzare articoli consimili, inclusi quelli di grandi brand non spendenti e del proprio marchio Prime
Per realizzare questo editoriale, la nostra redazione ha avviato una ricerca all’interno di alcune tipologie di prodotti presenti su Amazon.
Lo scopo è quello di mettere in risalto come le aziende, che pagano il colosso americano per vendere i propri prodotti online, si trovino poi posizionate fianco a fianco con i propri concorrenti in una sorta di grande abbuffata di prodotti similari.
Ma il colmo è che i loro investimenti vanno a vantaggio dei grandi brand non spendenti e dello stesso marchio Prime. Lo dimostreremo nelle prossime righe.
Tutto ciò avviene nonostante gran parte delle marginalità aziendali vengano risucchiate dalle alte provvigioni e dal costo degli annunci sponsorizzati, che Amazon propone per offrire maggiore visibilità.
Vediamo di analizzare insieme alcuni casi tipici e a volte persino clamorosi.
Amazon non è il futuro
Prima di addentrarci in alcuni esempi pratici di come le aziende su Amazon siano messe in concorrenza tra di loro, è bene fare una riflessione su quanto il colosso americano possa essere, o meno, un punto di riferimento per chi vuole vendere online.
Difatti i vendor di Amazon, che forniscono i propri prodotti alla piattaforma di Jeff Bezos, si possono distinguere in tre macro gruppi:
I venditori improvvisati sono coloro che individuano prodotti che, a loro sensibilità, possono trovare sbocchi nel mercato online. Li acquistano, prevalentemente in Cina, li importano e li pubblicano su Amazon perché possano essere venduti. Oppure usano sistemi di dropshipping.
Nelle linee generali si tratta di speculatori e non di veri imprenditori.
Le loro marginalità sono piuttosto alte, perché i prodotti che propongono sono di basso profilo. Si assumono il rischio dell’investimento, perché i cinesi vogliono essere pagati in anticipo e, per questo, sono in tanti quelli che ci rimettono le penne.
Il loro rischio, anche se lo comprendono in ritardo, è molto grande nonostante le loro vendite (a volte) vadano piuttosto bene. Spesso Amazon li scavalca rifornendosi essa stessa dal produttore e, di fatto, azzerando le loro vendite grazie alla battaglia di prezzi più convenienti.
Oppure semplicemente chiudendogli l’account. Può farlo contrattualmente.
La seconda tipologia di vendor è quella di chi ha necessità di svuotare con una certa fretta i propri magazzini. Tendenzialmente si tratta di aziende che hanno accantonato prodotti obsoleti o che hanno come traguardo la chiusura della propria attività.
In questo caso usano Amazon come un grande territorio di svendita. Per questo, considerano benvenuta qualsiasi forma di incasso, soprattutto se raccolto in tempi piuttosto brevi.
La terza tipologia è invece quella delle aziende che sono interessate al proprio futuro e, per questo, considerano Amazon il canale di vendita online che possa aprire per loro un nuovo mercato.
Quest’ultima tipologia di vendor è quella che deve essere più tutelata, in quanto si tratta di imprenditori seri, proiettati verso nuovi traguardi, desiderosi di implementare il proprio lavoro.
In questo caso, Amazon potrebbe essere utile per un test di pochi mesi sul mercato di riferimento.
Tuttavia è una strategia non condivisibile, in quanto costerebbe molto meno e sarebbe meno dispersivo avviare una diagnosi del proprio settore online, per verificare quanto e come Internet possa realmente accogliere un nuovo player di settore.
Peraltro, come abbiamo più volte scritto sul nostro Magazine, Amazon resta l’unico utilizzatore della lista-acquirenti che, al contrario, dovrebbe essere patrimonio unico dell’azienda venditrice. Quindi, anche un semplice test non porta beneficio a quelle imprese che vogliono costruire un business affidabile nel presente e nel medio-lungo periodo.
Infine, c’è da considerare che le aziende che si affidano ad Amazon, per vendere online, saranno sempre soggette alle politiche del marketplace e quindi, di fatto, non potranno mai contare sulla propria autonomia commerciale.
Detto tutto ciò, appare chiaro che, per nessuna di queste tre categorie di venditori, Amazon possa rappresentare un futuro sul quale fondare la propria esistenza online.
i grandi brand ringraziano
Ma torniamo a ciò che più concerne il tema di questo articolo. Cioè il fatto che coloro che vendono su Amazon sono costretti ad investire i loro capitali per favorire la concorrenza.
Sembra quasi strano sostenere una assurdità di questo genere, ma purtroppo è quello che realmente accade.
Innanzi tutto, anche in questo caso, dobbiamo suddividere le aziende in due macro categorie:
Come si vede, la nostra redazione ha preso in esame soltanto i vendor del terzo gruppo (aziende interessate ad aprire un nuovo canale commerciale), come precedentemente descritto.
I grandi brand sono quelli che vendono in tutto il mondo. Sono quelle major che spendono milioni di dollari e di euro per pubblicizzarsi, ben sapendo che non è dalla pubblicità che deriva direttamente il loro guadagno, ma dall’affermazione del loro marchio.
Queste società sono obbligate ad essere presenti ovunque vi sia uno spazio commerciale per loro disponibile.
Per quanto riguarda il mercato tradizionale sono presenti nei centri commerciali e nelle grandi vie di comunicazione, cittadine o provinciali. Per quanto riguarda il mercato online, invece, sono presenti con i propri e-commerce ma anche sui principali marketplace.
Per loro, essere su Amazon è un dovere istituzionale, indipendentemente che i guadagni provenienti dal marketplace siano più o meno significativi.
Poi ci sono i piccoli brand, cioè quelle aziende produttrici di minor fama. Tra questi due gruppi c’è una differenza sostanziale che non è solo quella del fatturato annuo.
Mentre un grande brand (per esempio Adidas, Chanel, Apple, Cartier, Coca-Cola, Toyota e tanti altri) non ha bisogno di avviare campagne sponsorizzate su Amazon, perché già molto conosciuto, il piccolo produttore si trova a dover sgomitare per farsi strada in un mercato super affollato.
Per questo motivo, Amazon gli offre i propri servizi di advertising. Più paghi e più sei visibile.
Questo significa che, oltre al fatto di dovere riconoscere una bella percentuale sulla vendite (si supera anche il 16%) ed oltre ai costi per usufruire della piattaforma, il piccolo brand deve investire anche in visibilità.
Peraltro non sono solo questi i costi che Amazon richiede. Difatti, oggi, le schede-prodotto di Amazon sono diventate così complesse, che una impresa deve necessariamente ricorrere ad agenzie specializzate, pena la mancata pubblicazione del proprio catalogo.
Ma il bello arriva adesso, perché una volta online e stanziato un budget per il marketing a favore del marketplace, ecco che cosa succede.
Noi abbiamo fatto alcune ricerche che mostrano come i piccoli brand, mandati allo sbaraglio per sbranarsi tra loro, in realtà stiano investendo a favore dei grandi brand. Ve ne mostriamo soltanto alcuni casi.
pantofole sponsorizzate
Il primo esempio riguarda una pantofola, casa produttrice Emanuela. Il prodotto appare su Amazon tra quelli sponsorizzati, quindi si tratta di una visibilità resa grazie al pagamento di una campagna di marketing.
La ricerca è stata effettuata tramite la parola-chiave “scarpe da donna”. Nella schermata di Amazon appaiono 60 prodotti, alcuni sponsorizzati come Emanuela, altri no. Quelli non sponsorizzati sono Geox, Puma, Clarks, Nike, Valleverde, Wrangler, Nero Giardini.
Bel colpo per Emanuela. Ha versato soldi per trovarsi in mezzo a tanti colossi che, al contrario, non hanno pagato alcuna sponsorizzazione, nonostante sia evidente che facciano concorrenza a Emanuela.
Ma non è finita qui. Entrando nella scheda-prodotto di quel tipo di pantofola, appare tutta una serie di prodotti correlati appartenenti al marchio Prime, che è di proprietà di Amazon.
Questa è una logica commerciale che appare del tutto inaccettabile, visto che la scheda di un prodotto dovrebbe riguardare sempre e solo lo specifico articolo a cui si riferisce.
orologio sponsorizzato
Un altro caso che abbiamo preso ad esempio è quello ricavato dalla ricerca “orologio da donna”. La prima sponsorizzazione che ci appare è quella di Victoria Hyde, un orologio rosa molto giovanile ma anche originale ed elegante.
Nella solita pagina di Amazon appaiono 51 risultati, fra cui alcuni sponsorizzati. Altri sono invece grandi marchi, tra cui Casio, Amen, Breil, Guess, Swarovski. Anche in questo caso, per loro, nessuna spesa per apparire al fianco di chi, invece, paga.
La stessa problematica della scheda-prodotto e del marchio Prime appare anche per questo articolo.
crema beauty sponsorizzata
Un ultimo esempio è quello della crema idratante Underarm Cream, che ci appare alla ricerca “creme per il corpo”.
Il prodotto è sponsorizzato e viene mostrato insieme ad altre 67 soluzioni di creme idratanti, fra cui alcune sono sponsorizzate ed anche a prezzi inferiori.
Il produttore di questa crema ha pagato Amazon per mettere in primo piano il suo prodotto e, quindi, aumentarne la visibilità.
Tuttavia viene presentato nella stessa pagina con grandi brand (non sponsorizzati), quali Oreal, Arval, Nivea, Gillette, Rilastil, Cera di Cupra, Florena, Collistar, Biotherm e tanti altri.
Nella scheda-prodotto, compare la solita sfilza di articoli correlati Prime, in tutto 120. Non male per chi ha pagato con lo scopo di presentare online un prodotto unico.
Ovviamente i casi di questo genere sono decine di migliaia e riguardano qualsiasi genere e categoria di prodotti.
Amazon crea grandi ceste di articoli commerciali consimili, dentro cui mette di tutto. Ci mette dentro i piccoli brand che si sponsorizzano e i grandi brand che non hanno bisogno di fare pubblicità.
Ciò che non è accettabile per una piccola-media azienda è di dovere pagare per fare apparire anche i suoi concorrenti più forti e non paganti.
Difatti, se la ricerca viene orientata sul singolo marchio specifico invece che su una parola-chiave (es. digito direttamente Pantofola Emanuela, oppure orologio Victoria Hyde, oppure Underarm Cream) succede esattamente la stessa cosa.
Buona fortuna a tutti quegli imprenditori che non vengono informati di quanto succederà anche a loro e preferiscono coinvolgersi nelle politiche di Amazon, piuttosto che aprire un proprio e-commerce aziendale.
Questa la domanda a cui molte aziende devono dare risposta.
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